di Cateno Tempio
Conversazione in Sicilia è un saggio sulla sofferenza dei siciliani. Fa sempre effetto utilizzare il plurale in questo caso: i siciliani, mentre si dovrebbe piuttosto dire il siciliano, per indicare un tipo di essere umano incapace di vedere oltre sé stesso, di contare su qualcosa – uomini, istituzioni, cose – che sia altro da sé. La sofferenza percorre quasi tutte le pagine di questo viaggio. Il viaggio è conversazione, ma se il siciliano non pensa, non è la pluralità, allora la conversazione è soliloquio. Neppure monologo, il che presupporrebbe comunque un pubblico. Nel fatto, Silvestro sembra che dialoghi solo con sé medesimo. Tutti soffrono, perché “il siciliano” soffre: soffre quando mangia un’arancia; soffre quando attraversa lo stretto (qui solo in un senso, ma soffre pure e forse ancor più quando lo attraversa nell'altro); soffre quando guarda donne denudate per l’iniezione; soffre quando beve vino in compagnia; soffre quando parla con il fantasima di un fratello defunto. «Ed è tanto soffrire?», chiesero i siciliani. Così è detto un passo prima dell’epilogo. Ma come nella vecchia barzelletta, si può dire che il siciliano è un tipo che s’offre. È dunque tanto s’offrire? Costa poi molto offrirsi al primo venuto? Non costa nulla, perché nulla il siciliano ha da offrire. O più precisamente, ha da offrire tutto, ma con la coscienza che questo tutto non vale nulla, con la consapevolezza che i furori che lo invadono non sono per nulla eroici, sono sempre astratti.
Estratto dal film Sicilia! di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub del 1999, un adattamento del romanzo Conversazione in Sicilia
Il popolo siciliano è una contraddizione, perché il popolo presuppone la pluralità, mentre il siciliano la sconosce. Eppure il siciliano soffre e s’offre come popolo. Ma pure: si offre e si nega; soffre ed è felice. Nessuno è felice al mondo come un siciliano, che è felice del nulla. E del siciliano, di me siciliano, apprezzo e disprezzo questo mio essere e non essere popolo, questo mio essere e non essere a un tempo, in senso assoluto; questa mia fuggevolezza perenne, inafferrabilità, inconcludenza sociale e politica, essere a un tempo dentro e fuori dalla storia, dalla cultura, dalla civiltà; essere dèi, come si dice nel Gattopardo, essere non uomini, ma incarnazioni temporanee dell’eternità dei miti.