mercoledì 23 ottobre 2013

L'isola degli asini ha letto "New italian epic" del collettivo Wu Ming

Il 6 ottobre, in occasione della sagra del pesco e dell'incontro bagnato "Siamo tutti lettori", Ornella ha letto Postmodernismi da quattro soldi tratto dal libro "New italian epic" del collettivo Wu Ming per capire ciò che la letteratura ha buttato in vacca in questi anni.

2. Sentimiento nuevo*

Il mio non è un romanzo «a schidionata», ma «a brulichio» e quindi è comprensibile che il lettore resti un po’disorientato.
Pier Paolo Pasolini, Petrolio, appunto 22a.

0. Postmodernismi da quattro soldi.
 
   Ne sono esistiti di maggior pregio, ma per quella merce gli anni Novanta sono una decade di sovrapproduzione e calo di qualità. I Novanta sono l’ultimo decennio della fase postmoderna, momento terminale,
di vicoli ciechi e crisi mascherata da trionfo (una festa sull’orlo del baratro). È il periodo in cui il postmodernismo (ossia la cultura del postmoderno) si riduce a «maniera» (termine che adopero nel memorandum). Del resto, si è parlato – piuttosto a proposito – di «età neobarocca», età di eccessi e artifici, di orpelli ed effetti, di shock abituali.

    Come già detto, quando cadde il Muro di Berlino (1989) la cultura era salita ormai da tempo sul carrozzone, ma le celebrazioni del «trionfo dell’Occidente» resero tutto più osceno.

   Facciamo un passo indietro. La descrizione più icastica ed efficace della sensibilità postmoderna è nelle Postille a Il nome della Rosa (cfr. memorandum e nota 10). Senza dubbio Eco intendeva mantenere come
polo magnetico l’attitudine che fu chiamata – ad esempio dai redattori della rivista «Baldus» – «postmodernismo critico»: uno «stare dentro» la postmodernità, senza stupor ma anche senza tenere il broncio. Ci provammo in molti, a suo tempo. Del resto, all’inizio tutto il postmodernismo si voleva e credeva critico.
   Ma come mai a un certo punto la critica si è sdilinquita fino a svanire? Sono legioni quelli che han tentato di definire le caratteristiche dell’arte e della letteratura postmoderne, finendo spesso per elencare scelte stilistiche ed estetiche (fusione di «alto» e «basso», citazioni, saccheggio del passato, derive metalinguistiche o che altro) in realtà già visibili – quando non addirittura centrali – nell’arte e nella letteratura moderne, da Lautréamont a Joyce, da Chlebnikov a Buñuel, da Faulkner a Henry Miller, da Eliot a Breton, da Gershwin a Chaplin, e poi Majakovskij, Man Ray, Malaparte…
   A distinguere le espressioni postmoderne da quelle moderne non era una cesura stilistica o tematica, bensì una cesura psicologica, di mentalità. 
   L’artista postmoderno era pieno di sfiducia e disincanto nei confronti dei linguaggi e materiali che utilizzava. Non credeva di poterli più prendere sul serio, non dopo l’evaporare dell’idea (prettamente moderna) che nell’atto creativo potessero esservi rinnovamento, liberazione, raffiche d’ossigeno a spazzare le vie della vita. Si era spento l’ultimo riverbero della detonazione «transformer le monde | change la vie» ottenuta dai surrealisti facendo cozzare Arthur Rimbaud e Karl Marx. Le utopie s’erano infrante sugli scogli della merce e il postmoderno fu un’epoca di disappunto (al principio) e «allegria di naufragi» (più tardi).
 
   La via imboccata fu quella delle ricombinazioni ironiche, del gioco distaccato, dell’irrisione di qualunque codice nonché di qualunque illusione sul suo utilizzo… fino all’avvoltolarsi nel metadiscorso: irrisione verso l’irrisione stessa, corrosione dell’idea di corrosione, ironia nei confronti dell’ironia, parodie dell’idea di parodia.

   Un esempio: il sottogenere «de paura» detto slasher (ragazza-inseguita-da-pazzo-mascherato-agitante-una-lama) è già un’espressione parodica e sarcastica; Scream di Wes Craven era meta-slasher, parodia intelligente del genere; Scream 2 e Scream 3 facevano il verso alla parodia stessa, e s’era già nello stucchevole; Scary Movie era ormai la (stolida e insulsa) parodia della parodia della parodia. L’ipercubo costruito sul quadrato dell’ipotenusa dell’opera. Sfiancantissimo.
 
   Ho raccolto l’esempio dal fondo nero e liquamoso del pop, ma avrei potuto farne altri, pescando dai curricula di Aldo Busi, Tarantino, John Barth o Bonito Oliva, oppure prendendo in considerazione la cinematografia di Godard dalla puerile caciara di Vento dell’Est alla risacca nella videoarte. Dalla «nouvelle vague» a Nouvelle Vague.
 
   Il decorso del postmodernismo si può descrivere in una sola frase: col tempo il «buttarla in vacca» è divenuto sistematico.

Buttarla in vacca a volte è importante. In certi momenti può essere salutare, liberatorio, ma è come farsi in vena: diventi dipendente, non riesci più a finire un discorso, come Tom Cruise che scoppia a ridere
al Tonight Show e non è più in grado di articolare una frase di senso compiuto. Il postmodernismo da discorso di «opposizione» – seppure indistinta – è divenuto dispositivo di cooptazione di ogni enunciato critico in un mondo dove il linguaggio rimanda sempre e ossessivamente a se stesso, i segni rimandano sempre e solo ad altri segni e la critica si autoannulla tra ghigni e cachinni, fino all’apologia dell’indecidibilità, dell’ineffabilità, dell’assenza di qualunque senso, dell’equivalenza di questo e di quello («codesto» ormai non s’usa più ma ci sarebbe stato bene).
   Se l’ironia diviene onnipresente, la sua valenza critica s’azzera.

[«Sì, ma DeLillo?»; «Che dire allora di DeLillo?»; «Non tieni conto di DeLillo!»
   È l’obiezione ricorrente, l’eccezione più frequente. Da bambino mi hanno insegnato che una rondine non fa primavera. Un singolo autore rimasto serio
mentre tutti ridacchiavano non frena l’andazzo generale. Nemmeno due o tre rondini (Pynchon, Doctorow) fanno primavera. Se un pugno di autori definiti
convenzionalmente «postmoderni» non sono diventati macchiette, ciò depone a favore loro e di nessun altro.]
 
   Come detto, situo la fine del postmoderno – e non sono certo l’unico a farlo – all’altezza dell’11 settembre 2001.
 
   C’è persino chi continua a definire «postmoderna» la fase che viviamo ora. Perché allora non definirla «post-preistoria» o «post-guerre puniche»? Come mai non chiamiamo più i nostri anni «secondo dopoguerra», e con quell’espressione indichiamo soltanto i tardi anni Quaranta-primi Cinquanta del secolo scorso?

   Semplice: perché il prefisso post- non indica – banalmente – un indistinto «dopo di» (ergo: apparterrebbe al postmoderno tutto ciò che segue e sempre
seguirà
la fase del «moderno»), bensì un periodo di postumi e di rinculo, come dopo uno sparo, o dopo una sbornia. Si parla di «post-punk» solo ed esclusivamente per dischi incisi nel periodo 1978-83.

   Il postmoderno è finito perché era un lavoro a tempo determinato. Di più: il postmoderno è finito perché è finito davvero – e non per finta – il «moderno», inclusa la sua fase di crisi interlocutoria, la fase «post-».
 
   Il «moderno» – cumulo di conquiste, di orrori, d’occasioni perdute – finisce con le risorse che ha divorato e cagato via, con la chimerica eternità del trantran petrolivoro e monnezzogeno. Ci si è illusi di vivere esentasse e che il mondo non presentasse il conto degli abusi. Si è vissuto, almeno in Occidente, dentro un miraggio. Anche chi esprimeva punti di vista critici o addirittura radicali condivideva in toto o in parte l’allucinazione.
   Chi chiede di «tornare al moderno» non è meno ridicolo e velleitario di chi, come niente fosse, vorrebbe perpetuare il postmoderno. A ogni fase storica la sua cultura. Finita la postmodernità, il postmodernismo è patetico residuo, riscalda avanzi già avariati. La contemplazione allucinata della società dei consumi e del linguaggio che la descriveva ha espresso tutto quanto poteva esprimere (difficile, o meglio implausibile, andare oltre J. G. Ballard), e una volta individuate cose divertenti che non farai mai più, non le fai più, punto.

Il tempo che viviamo ora non ha ancora un’etichetta, e ciò è bene. Abbiamo un margine di libertà**. Oggi è un sentimiento nuevo che ci tiene alta la vita.
 
 
* Testo scritto tra l’agosto e il novembre del 2008. Pubblicato da Einaudi nel 2009
** Qualcuno, tuttavia, usa l’espressione «post-postmoderno». Ecco, queste
sono pugnette.
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