domenica 30 giugno 2013

Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn

di Davide dal Muto


“Era trascorsa una giornata non offuscata da nulla,
una giornata quasi felice.”
(Aleksandr Solženicyn)

Racconto lungo, il primo, e anche quello più significativo dell’opera di questo gigante della letteratura. Senza nulla togliere al più famoso saggio “Arcipelago Gulag”, Solženicyn meritava il premio Nobel già per questa sua prima pietra miliare.

Il racconto si snoda durante tutta una giornata, dall'aurora al coprifuoco notturno, trascorsa dal prigioniero Šč-854 in un campo di lavoro siberiano poco prima della morte di Stalin.

Innanzitutto è bene analizzare l’umana compassione che l’autore, a sua volta ex deportato politico, usa nei confronti del protagonista (se stesso in pseudonimo) chiamandolo per nome anziché per numero, cosa che avrebbe sì spiegato ancor meglio la condizione degli internati ma a prezzo di un distacco da parte dei lettori, e qui sta il primo pregio del genio di Solženicyn.

Un’altra chiave del racconto è il suo ritmo sostenuto, raro o inusuale nella letteratura russa, talvolta avvicinato ma solo lontanamente da Gogol’. Ritmo che l’autore volutamente tiene alto rinunciando in parte alla splendida descrittiva dei suoi conterranei, per dare ancor più l’idea dei ritmi forsennati a cui erano sottoposti i prigionieri, mandati letteralmente a morire di lavoro in qualsiasi condizione di caldo o di freddo. Quest’opera, per come è scritta, si avvicina molto a quanto composto da Primo Levi (“Se questo è un uomo”), Imre Kertész, e altri grandissimi autori vittime e sopravvissuti alle deportazioni, molto più che non ad altri autori Russi o ex Sovietici, con la sola eccezione di Varlam Šalamov.

La differenza tra i patimenti subiti da Levi e quelli di Solženicyn sta nella prospettiva e nella speranza. Levi cercava di sopravvivere ora per ora allo sterminio di massa, lui stesso si sorprende di essersi salvato, quasi come fosse successo per caso e senza che ne avesse avuto la minima speranza. D'altronde, i Lager nazisti avevano l’obiettivo di sterminare, i Gulag di produrre. Solženicyn racconta invece che i prigionieri politici “Zek” lavoravano come forsennati per sopravvivere, con la speranza seppur lontana di una liberazione e di un ritorno a casa, e quindi spendevano tutte le proprie energie mentali ad arrivare vivi il giorno dopo, al solo fine di un giorno in meno da scontare.



C’è poi un motivo che rende “una giornata di Ivan Denisovič” diversa e superiore da quella di Šalamov, nel suo pur splendido I racconti di Kolyma”: Solženicyn (è lui che si descrive, pur scrivendo in terza persona) è finito nei Gulag quasi per caso, con la sorpresa e lo stupore di chi si crede buon comunista ed innocente; al contrario Šalamov è sempre stato un Trotzkista, un “nemico del popolo”, quindi si aspettava prima o poi di essere scoperto e spedito a vita nell'inferno bianco. Può sembrare una differenza lieve, nella gravità di quanto succedeva, ma Šalamov ha avuto paradossalmente più forza interiore e tempo per prepararsi di Solženicyn, la cui vita è stata inaspettatamente rovinata da una condanna immeritata. Certo, quanto è successo ne ha fatto poi una bandiera dell’anticomunismo, ma ci sono voluti anni e anni di lager (e di feroci auto-analisi) per scolpirne così nettamente la figura. Tutto ciò traspare nettamente nel romanzo, soprattutto nei dialoghi con il prigioniero Tsezar o con Kilgas il Lituano.

L’ultima chiave di questo bellissimo racconto è, a mio giudizio, il massimo rispetto che Denisovič  – Solženicyn ha nei confronti dei credenti e della loro incredibile forza morale, pur essendo egli stesso ateo. Lui individua i battisti (ma anche i protestanti, nella figura dei due Estoni) come incredibilmente puliti moralmente, proprio nel posto e nel momento in cui non sarebbe mai stato deprecabile un lieve decadimento morale, e ciò in velata polemica con la chiesa ortodossa, in quegli anni perseguitata solo in facciata, in realtà vezzeggiata e usata per controllare e reprimere meglio devianze e opposizioni al capo supremo.

Alla figura di Aljoška il Battista, in odore di santità, si contrappone esattamente l’abbruttito accattone Fetjukov, l’uno simbolo di ciò che doveva diventare la Russia e l’altro di ciò che la Russia in quel momento purtroppo era. Russia, non URSS, perché Solženicyn in questo momento sta parlando dei Russi, del suo popolo, non delle altre nazionalità sovietiche, che di solito assolve come vittime dell’imperialismo russo. Con la descrizione di queste due figure antitetiche, quindi, l’autore dà il suo preciso giudizio morale sullo Stalinismo, ed è un giudizio senza appello, ancorché lui stesso, ponendosi nel mezzo tra questi due estremi, mostri di come l’uomo russo abbia ancora speranza di elevarsi all'altezza di Aljoška invece che abbassarsi alla feccia di Fetjukov.


Incisivo, spietato, lucido, mai prolisso, Solženicyn riesce in poche pagine a descrivere il mostro Stalin e la sua terrificante ideologia, senza peraltro mai nominarlo direttamente.


Se si avverasse la profezia di Fahrenheit 451, questo sarebbe il libro che imparerei a memoria.

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